L’11 gennaio del 1947, presso la sala Borromini del maestoso Palazzo Barberini, gioiello della Roma rinascimentale, si consuma la scissione dei socialdemocratici guidati da Giuseppe Saragat, che fondarono il PSLI (in seguito PSDI) dal PSIUP (poi PSI) di Pietro Nenni.
L’Italia, nell’inverno del ’47, è un cumulo di rovine, la tensione verso la ricostruzione morale e materiale è parossistica, la Costituzione repubblicana è solo una bozza, De Gasperi presiede un governo tripartito (DC, PSIUP, PCI) ancora post-bellico ed è appena stato umiliato e disilluso dalla conferenza di pace di Parigi (cui ha partecipato con Bonomi e con lo stesso Saragat). Il Segretario di Stato americano, Marshall, deve ancora presentare il suo piano di aiuti alle nazioni europee, lo farà ad Harward il 5 giugno del ’47 e solo nel settembre di quell’anno Stalin formerà il COMINFORM. La guerra fredda si delinea ma la NATO nascerà nel ’49 e il Patto di Varsavia solo nel ’55.
Il 2 giugno 1946 l’Italia diventa una Repubblica, il 24 dello stesso mese Saragat viene eletto presidente dell’Assemblea Costituente, incarico che, pur non essendone obbligato né richiesto, lascerà (a Terracini) subito dopo la scissione.
Il nuovo congresso del PSIUP è convocato a Roma dal 9 al 13 gennaio 1947, non tutti gli autonomisti, ridotti attorno al 20% dai contestatissimi congressi provinciali, vi partecipano. La mattina dell’11 Saragat abbandona il congresso e, nel pomeriggio, raggiunge palazzo Barberini, dove già sono i “giovani turchi” e i dirigenti dell’FGS con in testa Leo Solari. (Ri)nasce il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani.
A Palazzo Barberini non è nata la socialdemocrazia italiana, la cui storia ripercorre la continuità dell’anima riformista del socialismo italiano e la cui origine è da ricercare nelle dispute di fine ottocento, riflesso della Seconda Internazionale, intorno all’ampiezza delle basi del movimento operaio e della sua coscienza di classe. Lo stesso Saragat era l’animatore di una cultura riformista che, all’interno del movimento socialista di matrice marxista, si contrappone non alla visione rivoluzionaria ma a quella totalitaria del socialismo.
I socialdemocratici tuttavia fanno risalire alla scissione di Palazzo Barberinil’inizio di una loro peculiare presenza ed esperienza politica nell’Italia repubblicana, che non merita di essere ignorata né liquidata con superficialità, perché contiene in sé tutto il bagaglio storico, politico e morale di quella cultura, interpretata prima del fascismo e nell’esilio da padri fondatori come Filippo Turati, Claudio Treves, Giacomo Matteotti, Giuseppe Emanuele Modigliani, Camillo Prampolini, Alberto Simonini, Bruno Buozzi.
Il nuovo partito nato a Palazzo Barberini dall’ennesima scissione, a partire dal nome, PSLI, e dal simbolo, affermò la continuità con la storia del riformismo socialista italiano. Ma il giovane Giuseppe Saragat era andato oltre, nei suoi scritti dell’esilio, l’impostazione riformista della generazione turatiana, cercando un più lucido ancoraggio di sistema alle teorie marxiste, di cui una “critica illuminata” poteva eliminare le interpretazioni “più rozze”, e innovandole, sublimandole direi, alla luce della stessa logica dialettica hegeliana che le ispirò.
La rilettura “illuminata” di Marx, l’umanismo marxista, la rivoluzione democratica, il valore della libertà, l’alleanza tra operai e ceto medio in una nuova unità di classe, maturati dagli insegnamenti dei grandi socialisti europei, da Engels a Turati, da Jaurès a Leon Blum, da Kautsky a Otto Bauer, rimangono immanenti nel Saragat di Palazzo Barberini, sono anzi il corpo e la sostanza ideale su cui innestare il programma politico della rinnovata socialdemocrazia italiana.